Concessione Rai-Stato, si rischia lo spacchettamento del canone

Il 6 maggio del 2016 scade la Concessione ventennale di servizio pubblico tra la Rai e lo Stato. Per Viale Mazzini questa data rappresenta lo snodo vitale per capire il futuro. E la sopravvivenza. Al momento non c’è nessuna legge che garantisca il rinnovo per altri vent’anni. Anzi, esiste pure il rischio che la torta si possa spacchettare in più fette da distribuire ai tanti commensali che si vogliono sedere al banchetto nuziale. A cominciare dai grandi competitor come Mediaset, Sky e La7. Senza dimenticare i circuiti dei network interregionali, le cosiddette tv locali finite nel dimenticatoio dopo l’avvento del digitale. Queste ultime emittenti hanno come la madre di tutte le battaglie la chiusura delle sedi regionali della Rai. Un’eventualità che permetterebbe di ridiscutere l’assegnazione di una fetta del canone. In corsa ci sono anche le agenzie (Ansa e AdnKronos in primis), che avendo perfezionato le multipiattaforme, sperano di partecipare alla distribuzione dei pani e dei pesci. Ma per fare tutto questo occorre cambiare la legge Gasparri, farne una nuova che regoli tutti i nodi al pettine della questione.
Ci vuole una legge
Il primo grande tema riguarda la natura della struttura Rai. Tra un anno e mezzo sarà ancora pubblica o verrà privatizzata? Se resterà pubblica sarà più facile avere le chance intatte per usufruire del rinnovo della concessione. Diversamente perderebbe molte velleità di successo. Il secondo aspetto è tutt’altro che da sottovalutare. Vent’anni fa la situazione era un bel po’ diversa dal punto di vista delle normative italiane ed europee sugli appalti pubblici. Oggi – in mancanza di una legge ad hoc – la concessione non può essere assegnata senza indire un bando. Quindi o si stabilisce che debba essere concessa alla Rai per grazia ricevuta oppure deve esserci una gara per l’assegnazione. Poi magari vince lo stesso la Rai ma deve sudarsela e battere la concorrenza. Di certo c’è il fatto che nella nuova legge vadano ben spiegati i requisiti. I soldi del canone fanno gola a tutti. Ogni anno spetta a Viale Mazzini più o meno l’80% del ricavato della tassa di possesso (che va pagata come il bollo dell’auto da chiunque possieda un televisore, anche se non vede i canali Rai). Il pagamento del canone porta in cassa circa un miliardo e 600 milioni (e altri 500 potrebbero essere recuperati dalla lotta all’evasione). La Rai senza questi soldi non potrebbe essere competitiva sul mercato, perché i circa 600 milioni annuali che porta la pubblicità non sono sufficienti. Tra l’altro negli ultimi anni, vuoi per la crisi vuoi per qualche politica sbagliata, la voce entrata riguardante gli spot ha perso 500 milioni (con la gestione Masi si superava il miliardo).
Il contratto di servizio
Il 2016 comunque è ancora lontano. Ora c’è da pensare al contratto di servizio 2013-2015, l’ultimo prima della scadenza della concessione. E i tempi si allungano clamorosamente. Visto che in Vigilanza non si riesce a trovare la quadra. Quindi alla fine dell’esamina della bozza da parte della commissione – che non ha parere vincolante – la palla tornerà al ministero dello Sviluppo economico che proporrà alla Rai le eventuali modifiche. L’unica cosa che sembra certa è la fine del bollino sui programmi per distinguerli da quelli pagati con il canone e quelli invece che si pagano con la pubblicità. Come se fosse facile fare la distinzione. Dulcis in fundo la questione della trasparenza sugli stipendi. La Rai è una spa, quindi non rientra nel perimetro della pubblica amministrazione. Pertanto esiste anche un problema di violazione della privacy. Un aspetto che anche Brunetta dovrebbe considerare.

Marco Castoro

Giornalista. Scrivo di media, informazione e tv. Tifo Roma, sono cresciuto con le canzoni dei cantautori. I miei idoli: Totti, Al Pacino, Ancelotti e Audrey Hepburn.