esploratori: le grandi sfide di Peter Blake

DAL TEMPO

di STEFANO MANNUCCI

LAGGIÙ, alla fine del mondo, c’è la Tomba del Diavolo. Ogni marinaio sa che davanti a Capo Horn, dove il Sudamerica si tuffa nelle onde gelide che annunciano l’Antartico, Satana si trascina in catene sul fondo. Accade sopratutto «nelle orride notti di tempesta, quando le acque e le ombre oscure dal cielo sembrano salire e scendere su quegli abissi», come raccontava lo scrittore cileno Francisco Coloane. Ma nel dicembre 2000 il leggendario navigatore neozelandese Peter Blake condusse senza sforzo il suo yacht “Seamaster” oltre le insidie infernali: non era la prima volta che doppiava il Capo, il punto marino più tumultuoso del pianeta, ma ci era sempre passato davanti di fretta, spinto dal fervore agonistico delle regate d’altura. In questo caso, invece, poteva permettersi di attraccare nelle insenature del Canale di Beagle, tra gli estremi avamposti dell’umanità e fiordi inesplorati, prima di affrontare il viaggio verso il Polo Sud, ben oltre i “Sessanta stridenti”, la latitudine dove le imbarcazioni temono di inoltrarsi, tra frangenti che incombono come palazzi di otto piani e il “cimitero degli iceberg”, quei colossali monumenti naturali modellati dal ghiaccio, che in molti casi superano in altezza i 130 metri. Guardando le cime innevate alla convergenza meridionale fra Cile e Argentina, Sir Blake – che nel 1994 aveva stabilito su un catamarano il record per la circumnavigazione del globo senza scalo – sentì che quella sosta era «un immenso regalo, è come riempire un vuoto che avevo dentro». Lo scrisse sul diario di bordo del “Seamaster” lanciato verso la missione polare, da lui voluta per capire se il pack si stesse sciogliendo, e se l’inquinamento e il riscaldamento della Terra avessero già prodotto effetti tangibili nell’ecosistema dell’emisfero Australe. Quella, peraltro, era solo la prima parte di un viaggio che doveva concludersi molte miglia più a nord, dopo aver risalito l’Atlantico fino in Brasile, tra le correnti del Rio delle Amazzoni e del Rio Negro. E fu proprio lì, dopo una vita trascorsa ad evitare ogni sorta di naufragio e navigare sfidando senza sosta le divinità degli oceani, che Sir Blake trovò la più banale delle morti. A ucciderlo non fu certo il “boto”, quel delfino rosa di fiume che le leggende locali vedono a volte come lo spirito degli annegati, o come un essere capace di trasformarsi in seduttore, un playboy antropomorfo responsabile di inspiegabili gravidanze tra le ragazze che abitano lungo le rive. A sparargli fu una banda di “topi fluviali”, pirati straccioni che volevano rubargli un motore di riserva e qualche orologio. Blake si comportò da vero capitano, facendo scudo col corpo per difendere il suo equipaggio: a bordo c’erano anche i figli adolescenti, mentre sua moglie era ripartita solo qualche giorno prima. Morì così, di notte, quel 5 dicembre 2001, mentre la “Seamaster” era placidamente ormeggiata, le vele calate, la chiglia mai mossa ad inquietudine in quelle acque rese scure dalla tenebra e dal tannino. Il 27 ottobre, sceso ad esplorare la vegetazione attorno al Rio Negro, aveva riportato sul diario una frase che suonava come un presagio obliquo: «Qui nella Foresta Amazzonica, dove si celano alcune tra le creature più pericolose del mondo, ho perso gran parte del mio coraggio». Si riferiva ai serpenti velenosi, agli insetti malarici, alle formiche che ti mordono le caviglie. Non sapeva che l’agguato fatale glielo avrebbero teso dei volgari ladruncoli, appartenenti alla specie che lui, ecologista non allineato, vedeva come unica responsabile del disfacimento del pianeta. Lo denunciava con le sue imprese, con il ruolo di inviato speciale dell’Onu per i temi ambientali, e con gli scritti sull’«Ultima grande avventura»: quelli che a cinque anni dalla scomparsa vengono pubblicati anche in italiano, nel pregevole volume fotografico delle Edizioni Mattioli 1885 (49 euro). Il cuore caldo di quella spedizione, com’è ovvio, batteva sotto la crosta gelida dell’Antartide. Sir Blake filava già al largo della costa meridionale del Brasile, ma la nostalgia per quei luoghi tanto inospitali eppure così pieni di vita gli si era insinuata sottopelle: «È stata l’esperienza più indimenticabile della mia carriera. Un giorno tornerò. Il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco sapranno darmi altre sensazioni – forse». E in quell’ultimo vocabolo c’era già l’eco di una risonanza lugubre, la premonizione che ogni uomo di mare avverte, come la burrasca invisibile e remota quando intorno è ancora calma piatta. Del resto, era stato impossibile non restare stregati dalle compagnie polari: le megattere che si tuffavano sotto il “Seamaster” e poi comunicavano tra loro, anche a centinaia di miglia di distanza. Le foche-leopardo che aspettavano il primo tuffo dei cuccioli di pinguino per una caccia mortale, gli albatros che accompagnavano le vele: Blake non era Baudelaire – e neppure Fogar, se è per questo – ma sapeva trasmettere la poesia misteriosa di quegli incontri ravvicinati. E l’allarme per i rifiuti di plastica gettati dalle navi, che pesci e uccelli scambiavano per cibo, e inghiottivano fino a morirne. O la trepidazione per la sua barca che si infilava nel King George VI Sound (un canale congelato sin da epoche preistoriche), ma che con il motore in funzione rompighiaccio, non faceva difficoltà ad aprire un varco d’acqua, che tale restava anche dopo il passaggio. Segno, quello, che la superficie polare si stava sciogliendo inesorabilmente: al ritmo di 50mila chilometri quadrati in meno ogni anno. Stessa sorte per gli iceberg – «coni gelati rovesciati» – che costringevano gli uomini di Blake a vigilare a prua, notte e giorno, per evitare impatti fatali. Lì, in quell’apparente deserto liquido, si consumavano da secoli i destini dei coraggiosi. Alla fine del Cinquecento era stato Francis Drake a vincere per primo la battaglia contro la furia dei marosi (gli “orsi grigi”) di Capo Horn, aprendo la via d’acqua per i commerci da e verso l’Europa. Duecento anni dopo il capitano Blight aveva incatenato ai posti la ciurma del Bounty, per tentare il passaggio da est verso ovest, rinunciando poi dopo tre mesi di vani bordeggi. Più a sud, sul suolo antartico, Scott e Amundsen avevano inaugurato il Novecento con la tragica gara per trovare il punto dove il globo finisce e subito ricomincia – il Polo Sud. Mentre Ernest Shackleton, dopo che nel 1916 la sua nave Endurance era rimasta stritolata fra i ghiacci, riuscì a salvare i suoi uomini con un viaggio di 800 miglia, a tappe, prima con le scialuppe, poi a piedi sulle cime dell’inviolata isola South George. All’alba del Terzo Millennio, Sir Peter Blake aveva vinto l’apocalisse bianca. Quasi un anno più tardi, all’altezza dell’equatore, scriveva ai suoi seguaci note di speranza per l’Amazzonia, malgrado i discutibili piani di disboscamento del governo brasiliano: «La parte più difficile deve ancora arrivare. Siamo sulla strada giusta. Abbiamo passione ed entusiasmo. Vogliamo fare la differenza. Speriamo che anche tu, insieme a tante altre persone, ti unisca a noi in quest’avventura». Furono le sue ultime parole.

Il Tempo, mercoledì 13 dicembre 2006

Marco Castoro

Giornalista. Scrivo di media, informazione e tv. Tifo Roma, sono cresciuto con le canzoni dei cantautori. I miei idoli: Totti, Al Pacino, Ancelotti e Audrey Hepburn.